GIULIA OCCORSIO
LO SPAZIO E IL RACCONTO
C’è una bellissima frase di Hegel, all’inizio della Fenomenologia dello Spirito, nel
capitolo dedicato a
Ebbene, dice Hegel che “molto altro è in gioco” anche in questa forma di
conoscenza, e nel cosiddetto “puro essere” che ne costituirebbe l’essenza.
“Infatti
-dice il grande filosofo- una certezza sensibile reale non è soltanto questa
immediatezza pura, ma è anche un gioco che si svolge a lato, un esempio di
essa” (Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, p. 171).
Stupenda immagine! Si manda
all’aria qualsiasi pretesa semplicità e univocità di qualsiasi esperienza
sensibile.
Ogni esperire, ogni sentire è
mediazione.
Come a dire che la coscienza
implica sempre un riflesso, un sentire di sentire, un suo raddoppiarsi nell’autoriflessione: sdoppiamento tra flusso vivente
dell’esperienza, da una parte, e avvertimento di tale flusso, dall’altra.
Per questo, dice Hegel, la coscienza non è mai immediata, ma è sempre un
lavoro tra sé, l’altro da sé e ancora sé, un andirivieni continuo fuori e
dentro di sé, creando e ricreando se stessa.
Per questo la vita umana,
mentre succede, si rappresenta. E’ questa la sua essenza specifica.
L’uomo è quell’animale che,
mentre vive, parla di sé, simbolizza sé e le cose e se stesso nelle cose.
L’esistere umano si svolge
sempre anche nel racconto che di sé
fa l’uomo, come in uno specchio.
Sono queste le suggestioni
filosofiche suggeritemi dalla prima, breve, conversazione telefonica con Giulia
Occorsio.
Giulia mi disse, ad un certo punto della conversazione: “ … io non sono
un’artista, sono una che racconta …”.
Mi colpì il richiamo al
racconto che l’artista faceva parlando del proprio lavoro. Mi suonò come fosse
un’allusione esplicita, anche se forse inconscia, a quel lavoro infaticabile
della coscienza che, nel momento stesso in cui percepisce, tesse anche la trama
della propria narrazione.
Giulia stessa mi ha detto che
la sua arte ‘sembra’ ingenua, e ho trovato queste parole intriganti, alla luce
della riflessione di Hegel prima ricordata: viene
voglia di scavare dietro a quel ‘sembra’.
Il lavoro di Giulia plasma
figure così cristalline nella loro determinatezza figurativa, da offrire alla
sensazione un campo famigliare, immediatamente riconoscibile e agibile. Davanti
alle sue tele l’occhio si riempie di scene e oggetti noti.
Ma qual è il gioco che si svolge a lato di questa ‘semplice’ rappresentazione?
Intanto c’è un espediente
tecnico che lì per lì può sfuggire anche all’occhio più attento: lo spazio che Giulia mette in scena
è non è mai uno spazio ottico, ma è uno spazio ‘aptico’ (dal greco aptomai, che significa io tocco). E’ uno spazio, cioè, in cui
l’occhio passa da un contorno all’altro, da una zona a un’altra, come toccando
la superficie.
E’ la prevalenza dei colori
freddi e la marcatura delle linee a creare questo spazio in cui tutto è toccato
dallo sguardo, dove la tattilità è demandata alla vista, diventa funzione
dell’occhio.
Prendiamo, ad esempio, il
bellissimo Forse un mattino, quadro
corredato dagli stupendi versi di Montale, a cui
prende in prestito l’attacco, come titolo.
Nonostante la presenza del
lago in primo piano, della casa sullo sfondo e del raddoppiarsi di questa nel
rispecchiamento nell’acqua, prevale, nella percezione, la parte superiore del
quadro, che quasi incornicia e dà la sua impronta al resto. In questa parte le
linee sinuose dei monti e del cielo percorrono un’unica superficie, con minimi
scarti di profondità.
E’ proprio questo lo spazio
della stupefacente metafora di Montale: “un’aria di
vetro”.
Un’ aria di vetro non è attraversabile
né respirabile. E’ materia sospesa. Come una quinta, può aprire o chiudere un
paesaggio, svelare o velare qualcosa.
Proprio per questo solo lei
può permettere che ‘accada’ la verità, per un attimo, come un segreto appena
svelato e subito nascosto di nuovo.
La pittura di Giulia arriva a
tale attimo di sospensione perché sa disegnare, rendendolo percepibile dai
sensi attraverso linee e colori, lo spazio di una rivelazione che, in se stessa , percepibile dai sensi non è.
Ma, e qui siamo nel vivo della
questione, il luogo di una rivelazione, lo spazio
fermo e sospeso che Giulia sa dipingere, è sempre anche un tempo, un momento sottratto al flusso cronologico delle nostre
abitudini quotidiane.
Per questo la rivelazione,
qualsiasi rivelazione, è uno spaesamento, uno
straniamento, uno smarrimento.
Per questo l’artista, ogni artista, arriva alle soglie di un mondo altro, alle
propaggini del Nulla.
C’è una parola coniata dal
grande filosofo francese Deleuze per indicare
l’esperienza della perdita dei propri confini, dello sradicamento dal proprio
‘paese’: deterritorializzazione.
Ma l’artista, ogni artista,
ritorna dalle lande estreme a cui giunge, portando con
sé le tracce di ciò che ha visto. E abita di nuovo, da straniero, il suo paese.
Ogni deterritorializzazione
comporta una nuova riterritorializzazione.
E sono proprio questi i due
poli dell’arte di Giulia Occorsio.
Lo straniamento, la perdita,
la prossimità dello svanimento, abitano sempre le sue
immagini, a prima vista così semplici.
Li si
avverte in
quella sorta di eccesso di presenza del paesaggio fisico che abita molte tele.
La fisicità muta della materia
è presente come dato reale, inevitabile e inaccessibile, una sorta di ‘cosa in sè’ kantiana, irriducibile alle categorie interpretative
dell’uomo.
Ma Giulia ci mette di fronte al
paradosso di una ‘cosa in sè’ più presente ai sensi
dei comuni oggetti spazio-temporali della consueta esperienza sensoriale.
Si pensi alla potenza
attrattiva delle scogliere di Moher, dove la pietra
sembra riassumere in sé tutta la forza di gravità del pianeta, tutta la
capacità di attrazione di un’energia divenuta massa. Come se i pensieri, i
desideri, i sospiri, le parole e le lacrime di tutta l’umanità si fossero dati
convegno lì, per diventare un pezzetto del corpo del mondo. E sono le forti
pennellate sinuose di Giulia a concretare la materia sporgente dal fondo come
puro muto essere.
O si pensi alla verticalità
scoscesa delle pennellate del Ghiacciaio,
o alla neve di Fuga da Kabul o allo
scoglio, pura sporgenza di pienezza materica dall’indistinto di mare e cielo,
dell’opera Senza titolo: pezzi di
essere che sorgono dal nulla.
E Giulia sa ripetere, nelle
sue tele, l’originarietà dello stupore e
dell’angoscia che ha colpito l’uomo di fronte allo scenario muto dell’essere,
l’incanto doloroso del momento in cui sorge la domanda del senso
dell’esistenza.
Heidegger diceva che è l’eccesso di ciò
che viene alla presenza a far scaturire la domanda filosofica per eccellenza,
la domanda sull’essere delle cose.
E’ l’eccesso di presenza,
infatti, a creare lo spaesamento muto, lo smarrimento.
L’artista è colui
che torna dalle estreme propaggini di quello smarrimento per
‘raccontare’ agli altri uomini la sua visione.
Così fa Giulia. Ma lei ci parla dello spaesamento, ricreando, sempre, il
paese; ci racconta la deterritorializzazione,
ricostruendo, sempre, il territorio.
Durante un incontro mi disse
di non capire il senso delle linee, così presenti e insistenti, nel suo lavoro.
“Ho questa ossessione della linea”, furono le sue
parole.
E’ vero. Le linee sono forti e
sembrano incidere lo spazio.
Ma mi piace pensare il verbo incidere nella sua duplice accezione
latina: come composto da in più cado,
e come composto da in più caedo.
Nel primo caso significa cadere dentro, nel secondo tagliare dentro, intagliare.
Le linee di Giulia cadono
nello spazio per intagliarlo, ritagliando, dallo spazio
dello smarrimento, uno spazio nuovo, che di nuovo accolga, racchiuda, includa.
Così deterritorializzazione
e riterritorializzazione, sradicamento e ritrovamento
delle radici, spaesamento e ritorno al paese, sono i due poli del gioco, per riprendere l’immagine di Hegel, che si svolge a lato delle ‘semplici’ figure di
Giulia.
E questo succede perché la sua
arte è un racconto al femminile.
E’ il principio femminile
dell’anima che sa raccogliere dopo la dispersione, racchiudere dopo lo
sconfinamento.
L’insistere delle linee, il
loro ripetersi, ricostruiscono la cornice capace di contenere
anche lo struggimento più sottile, la nostalgia più accorata.
E c’è un’opera in cui Giulia
mette in scena, forse senza saperlo, il femminile.
Si tratta di Mont Saint Michel.
La piccola cattedrale che
l’artista dice ‘racchiusa nel pugno di Dio’, sembra un cuore in un guscio di
noce, come un tesoro custodito in uno scrigno, sempre salvo, nonostante conosca
la ciclica sopraffazione delle maree.
Il raccoglimento e la custodia
sembrano essere la tensione continua che attraversa il lavoro di Giulia, come
un filo che percorra tutte le sue opere.
E’ qualcosa che è sempre in
compimento, più
che qualcosa di compiuto.
Ma la vita ci insegna che c’è
tensione solo là dove forze pari e opposte scendono in campo: la spinta al racchiudere è tanto più forte quanto più forte è
il richiamo, doloroso ma irresistibile, dello sconfinamento.
L’arte di Giulia ferma sulle
tele l’inquietudine della vita, di quella vita,
sottile ma impetuosa, che scorre nelle vene dell’anima.
Patrizia
Crippa
Monza 24 maggio 2008